C’è stato un periodo della mia vita recente nel quale l’inverno sembrava non passare mai. Ogni sera, di ritorno dal lavoro, mi sdraiavo sul divano di casa, indossavo le cuffie e ascoltavo musica per ore, spesso mentre piangevo. Il più delle volte guardando il soffitto immobile come me. Credo di aver sperimentato in quei mesi la mia più profonda solitudine, di aver navigato in spazi che non credevo accessibili. Le cuffie emanavano dei suoni a cui prestavo molta attenzione e che cullavano il mio stato d’animo, lo alimentavano mentre esso provava ad affogare ciascuna parte di me.

Ogni mattina che seguiva quelle navigazioni solitarie mi alzavo presto, sbrigavo le mie cose e andavo a lavoro. Tutto il giorno ero lucido e presente ai miei impegni, una sorta di automa. Non appena varcavo la soglia di casa entravo in una sfera gonfia d’acqua in cui ogni cosa fluttuava lentamente senza direzione, mi sdraiavo sul mio divano e davo vita al mio rituale. Pur comprendendone la potenziale capacità distruttiva, non potevo fare a meno di farmi abbracciare da quel movimento che mi sollevava, rendendomi temporaneamente etereo. Era piuttosto durante il giorno, nei momenti di pausa e nei trasferimenti da un luogo all’altro, che provavo a convincermi che no, quella sera non avrei dovuto cedere al tepore della solitudine, avrei dovuto resistere al fascino del compiacimento.

Come un bambino goloso lasciato solo davanti a un pacco di cioccolatini, però, ero incapace di trattenermi. Stendendomi sul divano e iniziando ad ascoltare la musica in cuffia, sentivo un rilascio fisico che appariva come un sollievo, un ritorno alla base, l’abbraccio di mia madre. I muscoli — tesi e allenati — tornavano morbidi, non più sotto lo scacco della forza nervosa dei tendini che scottavano di fatica. Le enormi gocce di pianto che mi scendevano lungo le guance mi liberavano e, paradossalmente, mi permettevano di iniziare un processo di distacco che si sarebbe concretizzato con il sonno, pesante e ordinario, durante la notte.

È stato in quel periodo che ho scoperto alcuni cantautori americani bravissimi. Le loro canzoni risuonavano gli armonici che il mio corpo richiedeva. Ascoltarli adesso non significa per niente tornare a quella solitudine, piuttosto vuol dire ammirarla. Sono pochi altri i momenti così intensi finora esplorati. Ripercorrere quelle profondità non mi spaventa; anzi mi rende consapevole che ogni qual volta la superficie della mia vita mi annoi, sarò capace di andare a vedere i luoghi dove i sussulti non sono traumatici. Se avessi paura di quella fluidità ne rimarrei ostaggio continuamente, la vedrei nascosta negli sguardi di qualcuno, dietro l’angolo girato, nel fondo di un bicchiere.

Stamattina ho fatto suonare sull’impianto stereo di casa una di quelle playlist che mi accompagnavano in cuffia. La dolcezza di queste canzoni è rimasta intatta. Il sole scalda molto meno di qualche giorno fa e laggiù, dove tutto sembra lento e pesante, c’è l’immagine di qualcuno che mi assomiglia e sorride.

Photo by Fabrice Villard on Unsplash

Saverio Mariani

Author Saverio Mariani

Laureato in Filosofia ha svolto ricerca a Macerata, Napoli e Roma, salvo tornare sempre nella sua Umbria dove c'è il silenzio giusto per suonare le sue chitarre. Ha scritto saggi per riviste scientifiche, un libro su Bergson (ETS, Pisa 2018), alcuni racconti usciti su Minima&Moralia e varie altre cose. Sua madre dice che compra troppi libri, per l'Istat è un lettore forte.

More posts by Saverio Mariani

Leave a Reply