Uscimmo lentamente dalla enorme struttura ospedaliera e per la prima volta rividi mio padre in un luogo neutro, con una mascherina azzurro acqua marina a coprirgli naso e bocca. Gli elastici bianchi tesi dietro le orecchie, lo sguardo era contornato dai capelli ricci e setosi, e da questo pezzo di stoffa sintetica di protezione. Per la prima volta era fuori dall’ospedale, compiva il primo faticosissimo passo nella sua seconda vita. Respirava con difficoltà e la mascherina si gonfiava e sgonfiava, come una piccola fisarmonica.

Mio padre, da quei giorni di quasi sei anni fa – come ho provato a raccontare in questo lungo racconto –, è un immunodepresso. Inizialmente indossava sempre la mascherina quando veniva a contatto con altre persone – la indossava pure quando con me, suo figlio, eravamo in una stanza d’albergo nei pressi di Ancona, affacciato sul mare, e vivevamo lunghe ore di riposo e pausa fra una visita all’ospedale e l’altra. La indossava anche il giorno in cui, dopo un mese e mezzo dall’operazione, tornammo a casa e mia madre e mia sorella ci vennero ad abbracciare; così come quando arrivavano i suoi amici a trovarlo. L’estate non era ancora finita e allora chiedeva loro di stare fuori, nel patio della nostra vecchia casa, a debita distanza da lui che aveva metà volto coperto dalla mascherina. La indossa – o meglio la dovrebbe indossare – anche ora quando va in ospedale per i suoi rituali controlli, e da immunodepresso corre il rischio di contrarre malattie e virus più facilmente.

Quando guardi negli occhi una persona vedi uno sguardo in mezzo ad altre cose: l’espressione della faccia, la bocca e le pieghe delle guance. Quando guardavo negli occhi di mio padre che aveva parte del volto coperto dalla mascherina, vedevo più a fondo il suo sguardo vispo e mai pago. Lo vedevo e immaginavo come potesse sentirsi con quella mascherina addosso. Una persona con la mascherina ti genera un po’ di apprensione, ti viene automatico tenere qualche centimetro in più di distanza. Gli immunodepressi, però, non sono degli appestati che tentano di evitare che un qualche loro virus si diffonda, piuttosto provano a difendersi.

La scorsa settimana – la prima settimana segnata da una smisurata paura per il Coronavirus – sono andato tre volte a Roma, due per lavoro una per piacere. E ho visto mascherine sulle persone sane che provavano a difendersi dal virus per strada o sui mezzi pubblici. Poi ho visto in TV quel politico che la mascherina non sapeva nemmeno indossarla e che, malgrado fosse risultato negativo al test, poiché una sua collaboratrice ha contratto il virus, si è autoisolato.

Ad ogni mascherina rivedo lo sguardo di papà, seduto nella terrazza dell’hotel, affaticato, che se la toglieva non appena tornavo in camera e la indossava di nuovo quando uscivo per fargli compagnia. Oppure quella volta, qualche giorno dopo le dimissioni, che siamo andati nella farmacia di un paesino in collina, sopra ad Ancona. Andammo lì perché volevamo passare un po’ di tempo ed evitare la confusione della città. Il farmacista si rizzò dietro il bancone, quando ci vide entrare; la farmacia era vuota e mio padre chiese un portafarmaci giornaliero, che ancora usa. Il farmacista ce ne portò alcuni, ci illustrò le qualità di uno e dell’altro. Mio padre scelse e gli disse che ora non ne poteva fare a meno, dopo l’operazione. Al che il farmacista, senza essere invadente, chiese cosa avesse fatto e come si sentiva. Papà rispose che aveva affrontato un trapianto di fegato e che si sentiva tutto sommato bene. Il ragazzo ci guardò e gli disse: «lei ha gli occhi vivi. Andrà tutto bene». Che peccato che non abbia potuto vedere il sorriso che papà – ne sono certo – sfoderò in quel momento in cui era alla ricerca, più che mai, di un conforto. Indossava la mascherina, per proteggere se stesso.

 

Non si può certamente chiedere a tutti di razionalizzare la paura fino ad azzerarla, di misurare l’effettiva possibilità di un contagio, però si deve chiedere a chi ha responsabilità politiche di lasciare le mascherine a chi ne ha bisogno, perché quei pezzi di stoffa sintetica non sono solo uno strumento sanitario, ma un elemento culturalmente e psicologicamente pesante. Vi prego, abbiate rispetto dei sorrisi e delle smorfie degli immunodepressi, nascosti dalle mascherine color azzurro acqua che possono proteggerli, della difficoltà che significa portare quella cosa davanti alla propria faccia, fino a sembrare irriconoscibili. E noi, cittadini spaventati e impauriti, evitiamo di fare razzia delle mascherine nelle farmacie e nei supermercati, proviamo a vedere la situazione da un po’ più lontano, a fermare la paura, ché il più delle volte ci porta a compiere azioni ingiustificate.

 

Photo by ?? Claudio Schwarz | @purzlbaum on Unsplash
Saverio Mariani

Author Saverio Mariani

Laureato in Filosofia ha svolto ricerca a Macerata, Napoli e Roma, salvo tornare sempre nella sua Umbria dove c'è il silenzio giusto per suonare le sue chitarre. Ha scritto saggi per riviste scientifiche, un libro su Bergson (ETS, Pisa 2018), alcuni racconti usciti su Minima&Moralia e varie altre cose. Sua madre dice che compra troppi libri, per l'Istat è un lettore forte.

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