Ho letto un libro che parla di percezioni – il sistema che ci permette di conoscere il mondo, diciamo pure i recettori esterni-interni attraverso i quali capiamo la realtà – e in quel libro, molto bello, c’era scritto che i russi percepiscono le sfumature del rosso con più precisione rispetto agli anglofoni. Il motivo è il linguaggio: le parole che compongono la lingua russa impongono più sfumature di un concetto cardine. Al contrario la lingua inglese è più netta, ha meno nuances.

Che questo non rimanga solo un dato linguistico ma divenga una componente neurologica capace di differenziare chi è cresciuto all’interno di un certo parametro linguistico è, quantomeno, straordinario. (E uso un eufemismo.)

Lo sappiamo da prima che uscisse Palombella rossa che le parole sono importanti ma forse non ci riflettiamo mai abbastanza. Perché le parole si portano dietro non solo le idee e i concetti che esprimono, ma tutto il mondo che gli gira intorno. Dire è sempre dire qualcosa e dire oltre quello che si è detto. Le parole non hanno i contorni netti che segnano l’inizio e la fine di una proprietà, sono liquidi che si mescolano e si trascinano dietro la loro storia. Le parole che utilizziamo hanno inoltre la capacità di rivelarci i lati nascosti di quello che abbiamo detto e che, forse, non volevamo nemmeno dire.

E com’è straordinario il fatto che – da sempre – ci impegniamo a definire cosa sono le parole attraverso le parole stesse? Di solito se devo definire qualcosa, nella sua definizione, non devo utilizzare quel vocabolo. Con le parole questo non avviene: parliamo di come parliamo, scriviamo pagine su come scriviamo, leggiamo saggi e articoli sulla nostra capacità di leggere e vedere oltre quello che è il mero dato alfabetico.

Un circolo virtuoso (o vizioso?) nel quale le parole si gonfiano di senso e acquistano una centralità ancora maggiore. Sì, le parole sono importanti, perché le parole non si fermano al suono che producono o alla forma che troviamo sulla pagina. Le parole aprono spazi e stimolano collegamenti con altre parole, che stimolano legami con altre parole, all’infinito.

Beati i russi che percepiscono le sfumature del rosso e le sanno raccontare.
Beati tutti quelli che hanno la forza di stimolare il proprio cervello a percepire più di quello che basterebbe per sopravvivere.
Beati quelli a cui le parole non hanno fatto del male – anche se, forse, questi fortunati esistono solo nei sogni.

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Saverio Mariani

Author Saverio Mariani

Laureato in Filosofia ha svolto ricerca a Macerata, Napoli e Roma, salvo tornare sempre nella sua Umbria dove c'è il silenzio giusto per suonare le sue chitarre. Ha scritto saggi per riviste scientifiche, un libro su Bergson (ETS, Pisa 2018), alcuni racconti usciti su Minima&Moralia e varie altre cose. Sua madre dice che compra troppi libri, per l'Istat è un lettore forte.

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