Sembra piuttosto chiaro che Julian Barnes – o il suo editor, o forse entrambi assieme – ci sappiano fare con i titoli dei libri. Dopo The Sens of an Ending (Il senso di una fine) se ne esce con The noise of Time (Il rumore del tempo). Titoli quantomeno evocativi.

Il senso di una fine mi era molto piaciuto. (Anche se rileggendo la recensione che scrissi 4 anni fa mi pare di trovare una certa ingenuità nella mia scrittura, una pretenziosità che non aveva ragion d’essere. Ma vabbè, si sa: si cambia. E devo assolutamente rileggere quel libro, preferibilmente in una domenica piovosa.)

Il rumore del tempo mi aveva suscitato molte aspettative. Per il titolo, perché parlava di Šostakovič – uno dei miei compositori preferiti (ma quanto è bello il secondo concerto per violoncello? Soprattutto se suonato, come qua sotto, da Rostropovich!). E perché Barnes, come detto, mi aveva letteralmente stupito con Il senso di una fine.

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Il testo – romanzato – racconta in modo diacronico la vita di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič nei suoi rapporti burrascosi con il Potere sovietico.
Barnes prova ad immaginare (ricostruendolo anche sulla base di alcune biografie del compositore sovietico) il sentimento provato alla lettura, sulla Pravda, di un articolo nel quale si definiva la sua Prima Sinfonia «Caos anziché musica». L’accusa di formalismo, le telefonate di Stalin, le lunghe giornate passate a studiare il marxismo-leninismo con figure incaricate dal potere di riassestare l’animo rivoluzionario dell’amato compositore, l’amicizia con il Maresciallo Tuchačevskij che però – una volta offertosi di aiutarlo – sparisce e si eclissa.

La prima grande scena del romanzo è ricostruita sul pianerottolo di casa di Šostakovič. Certo che le guardie lo verranno a prelevare, l’autore aspetta in piedi davanti all’ascensore per notti intere – con una borsa appoggiata a terra e un pacchetto di sigarette fumato ogni volta. Durante quell’attesa snervante Barnes (voce della coscienza di Šostakovič) si auto-narra il perché la presenza del compositore lì, sul pianerottolo di casa ad attendere il Potere che lo venga a prelevare, sia giustificata. O almeno: spiegabile. La sua Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (unica opera lirica, riammessa nei programmi musicali sovietici solo decenni dopo) fu clamorosamente bocciata come una «pièce oltraggiosa» nei confronti della Grande Madre Patria e dello spirito sovietico.

Ma Šostakovič ne uscì, in un qualche modo. Anzi, nel modo più classico possibile: era un compositore gigantesco. E amato dal pubblico, in Unione Sovietica e oltreoceano dove veniva accostato al genio di Prokof’ev. A differenza di quest’ultimo, però, il vigliacco Šostakovič non riuscì mai a fuggire. In America ci andò – spedito, come membro di una delegazione artistica sovietica, dal Potere –, sperando in un certo anonimato che si sarebbe sposato alla perfezione con la sua indole sfuggente. Ma al contrario, il nome di Šostakovič nella delegazione era il richiamo assoluto. Era l’autore della celebre Quinta Sinfonia, quella che lo riabilitò con il Potere, «la risposta creativa di un artista sovietico a critiche fondate» come la definì, ancora una volta, la Pravda. Una tragedia ottimistica, continuava l’articolo.

Barnes s’immagina Šostakovič sghignazzare leggendo queste parole, lasciandole al Potere «che tanto non possono intaccare la musica. La musica sfugge alle parole: è questo il suo intento stesso, la sua maestà» (p. 61). Poiché nel quarto movimento di quella sinfonia, nell’ottimistica tragedia che si consuma, Šostakovič si prende gioco della immane costruzione ideologica che ha l’unico scopo di ricercare una “purezza” originaria inarrivabile. Nella Quinta Sinfonia c’è la genialità di Šostakovič e la sua imprudenza: la voglia di mostrare a sé che l’arte non è al servizio del Potere, ma che essa risuona così come vuole.

La seconda grande scena è pertanto ambientata in America, e poi nel seguito di quel viaggio che portò Šostakovič a conoscere la sua fama mondiale. Quest’ultima – che in un certo modo preoccupò il Potere – fu regolamentata e organizzata. Šostakovič venne imbrigliato, diventò presidente dell’Unione dei Compositori, dovette iscriversi al Partito Comunista e sulla Pravda cominciarono a uscire articoli con la sua firma ma che lui non aveva scritto.

L’unico rifugio di libertà era dunque quella musica attraverso la quale poteva dire ciò che voleva – non messaggio universale, ma ancora di salvezza particolare. Unica.
Infatti, «che cosa poteva contrapporre al rumore del tempo? Solo la musica che viene da dentro – la musica del nostro essere – che alcuni sanno trasformare in musica reale. E che se nei decenni a venire sarà abbastanza forte e pura e autentica da annegare il rumore del tempo, si trasformerà nel mormorio della storia. Ecco, si aggrappava a questo» (pp. 131-132).

Quest’ultima fase è raccontata nella scena in automobile; come se Barnes avesse pensato un movimento dialettico e la sua sintesi finale. Non più un luogo intimo ma comune come il pianerottolo, nemmeno la negazione della grandezza russa come l’America, ma ora Šostakovič si trova incastrato dentro un’auto con l’autista. In un certo senso, è il-rumore-del-tempoquest’ultimo che decide dove andare – e non si può andare tanto lontano dal freddo della Russia. Šostakovič invece, trasformando il rumore del tempo in mormorio della storia, si è spostato dal piano del tempo per innalzarsi a quello dell’eternità. Piano nobile al quale si accede solo attraverso un ascensore tortuoso e pericoloso, ma che conduce a quella realtà che va oltre il Potere, oltre gli uomini e che si chiama Arte.

Il libro di Barnes è coinvolgente, anche perché racconta una parte di storia che si trova ancora qui, dietro l’angolo delle nostre esistenze. Tuttavia la forma è quasi saltellante, volutamente frammentata. Questo – in alcuni momenti – appesantisce la lettura e ha un retrogusto di giudizio morale sul corso degli eventi.

Una volta letto il romanzo l’unica cosa da fare è riassaporare l’opera di Šostakovič nella sua immediatezza e timida sfrontatezza. Ecco, questo va oltre i conflitti costanti che il testo mostra e mette in luce. Libera la sua musica dal contesto, paradossalmente. Di questo, a Barnes e alla sua operazione un po’ spericolata, va dato atto.

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