Alessandro Piperno scrive in un italiano invidiabile. Le sue frasi, l’intreccio di pensieri che si fanno parole, sono melliflue, calde, accoglienti persino quando si propone di respingere il lettore. Piperno ha la capacità, rara, di poter discernere tutte le componenti di un personaggio, aprirle una alla volta nel corso della narrazione, posizionarle lì dove la trama lo richiede.

Dove la storia finisce, il suo ultimo romanzo edito come i precedenti da Mondadori, appare tuttavia meno costruito. I periodi contengono meno avverbi e lemmi ricercati. La lettura scorre via tra la sorpresa e il disincanto di trovarsi di fronte alla spettacolare lucentezza della lingua italiana. La sua complessità, il suo spaventoso numero di variabili.
Ma un romanzo non è solo la lingua in cui è scritto, è anche la trama, l’intreccio, i personaggi, ciò che accade.
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Piperno mette sul campo moltissimi attori in una grande saga familiare che non sa precisamente quando si trova sul piano dell’apparenza e quando in quella della realtà. Federica, quarantanovenne romana, ha una figlia – Martina – nata dal matrimonio con Matteo Zevi, particolare ebreo romano scappato sedici anni prima in California per motivi economici (leggi: debiti), che un giorno – senza preavviso – torna, sembra definitivamente, nella Capitale. Federica è praticamente sola, Martina (la quale svolge un dottorato di ricerca a Roma in materie forensi) è sposata con Lorenzo, figlio belloccio ma sottile del suo Prof. Mogherini. Benedetta, sorella di Lorenzo, è stata l’amica del cuore di Martina. Ora abita in Germania, gli strappi – fra le due – non hanno fatto bene. Gli strappi non fanno mai bene, a maggior ragione se ad essi si alternano riavvicinamenti che tentano di far finta che le cose successe non lo siano.
Matteo, prima di sposarsi con Federica e concepire con lei Martina, era già padre di Giorgio. Anche lui, particolare ebreo romano che – grazie all’aiuto dell’amico di famiglia Tati – apre un fortunato ristorante esotico arredato come un vecchio vagone dell’Orient Express.

Ciò che tiene insieme tutti questi fili intrecciati l’uno con l’altro è una voluttuosa mancanza di felicità, una insoddisfazione fondamentale di ognuno dei personaggi. La buona borghesia romana è descritta nella sua fragilità interiore e contestuale esteriore forma benestante (questione soprattutto delineata dalla coppia Mogherini).
Sono le vite dei singoli ad emergere in questo romanzo, in modo simile a quanto era accaduto anche nel dittico Il fuoco amico dei ricordi, composto da Persecuzione Inseparabili. Non c’è storia che possa tenere insieme una coscienza, pare. Nessuna continuità può mettere in soffitta l’emergere delle particolarità, ognuna delle specificità deve venire alla luce, abbagliare chi la guarda e – spesso – sorprendere anche chi la prova.

Un amore rivelato a metà a se stessi, una voglia di rivalsa sul padre fuggiasco, la soglia dei cinquant’anni, la pelosa vita dell’accademico e della sua famiglia nata e cresciuta nell’incubatrice asettica priva di sentimenti eccessivi, il ritorno a casa di un bambino di quasi sessant’anni, la nascita di un figlio e la necessità di cambiare priorità nella vita… Queste, e molte altre cose, si trovano dentro a un romanzo davvero bello e, come detto, scritto in modo egregio. La trama si regge fino ad un finale inaspettato. I brevi capitoli aiutano la lettura e ci consegnano una struttura perfetta per un adattamento cinematografico. Certo, delle splendide immagini e degli ottimi attori non potranno mai consegnarci quelle analisi profonde e struggenti che il vocabolario di Piperno ci fornisce.

Il libro va letto, soprattutto, per godere di questa pura esperienza estetica.

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