Stimolo
Il caldo mi mordeva i polpacci, stretti dentro i jeans umidi di calore e percorsi da minuscole goccioline di sudore salato che scivolavano sulla pelle. Il fresco del liquido era nullo nella cappa che si era venuta a creare alle estremità dei pantaloni, nei pressi delle mie caviglie. 

Avevo appena svoltato a destra, nella seconda parte di vicolo — quella in salita — che mi avrebbe riportato a lavoro dopo la pausa pranzo, e l’uomo camminava in senso opposto rispetto al mio. Indossava una camicia azzurra come il cielo di quel giorno di giugno inoltrato, un gilet da fotografo blu notte con le tasche rigonfie di blister. Sembrava essersi perso o, almeno, incapace di capire dove andare. 

Quella enorme quantità di medicinali nelle tasche dell’uomo che avevo incontrato — barba bianca di qualche giorno, capelli corti ma arruffati, aria dismessa ma lucida — mi è tornata in mente tutto il pomeriggio. E così come fa ogni ricordo, per sua stessa natura, l’immagine di quell’uomo infagottato di scatole di medicinali, mi stimolava pensieri, un po’ di passato e una riflessione. 

Quest’ultima riguardava nello specifico l’incredibile quantità di spot pubblicitari di prodotti farmaceutici che avevo visto alla tv, mentre pranzavo, e faceva il paio con il gilet di medicinali di quell’uomo senza meta. Nelle ore più calde dell’anno duemiladiciannove, tra un TG e l’altro di un canale all news, la cosa più consigliata ai telespettatori erano: integratori, prodotti utili a sostenere la concentrazione, ad aiutare il proprio corpo nel rimanere attivo, o capaci di farti riprendere la “giusta carica”, bustine da diluire nell’acqua, pasticche da masticare facilmente durante il giorno, oppure da nascondere sotto la lingua. Insomma, la cosa che più mi era stata proposta — a me così come ad altre centinaia di migliaia di individui contemporaneamente — era un sostegno, un aiuto. Come se la pubblicità avesse intuito che noi eravamo in difficoltà; l’arrivo dei suoi prodotti sponsorizzati era dunque una mano tesa nel momento esatto in cui ci era più utile. Una madre che ti raggiunge quando, da bambino, sei in bilico sulla bici senza rotelle. 

Analisi
La maggior parte degli integratori, disponibili oramai in quantità e tipologie numerosissime nelle farmacie e nei supermercati, richiede un impegno. Non basta, infatti, assumerli al bisogno, ma devono rientrare nella quotidianità che dovrebbero aiutare a sostenere. Sei dunque tu, consumatore debilitato, che hai il compito di inglobare quel gesto nei milioni di gesti che ogni giorno progetti di fare e realmente compi: assumere l’integratore alimentare, una o due volte ogni ventiquattro ore. Sospendere questa ritualità, ti informano, potrebbe portare al decadimento degli effetti benefici del prodotto.

Non ci sono chances, non ci sono eccezioni. 

Ma più che la necessaria ripetitività di questa assunzione, ciò che mi premeva la testa era una serie di domande: perché abbiamo bisogno di un sostegno? È un fattore alimentare a scatenare questa necessità, sociale o culturale? Ovvero: mangiamo male e quindi non arriviamo lucidi a fine giornata? Oppure, nel contesto in cui viviamo, ci viene costantemente chiesto di essere presenti a noi stessi, sempre performanti al massimo delle nostre possibilità? 

È forse quest’ultima richiesta a scuotermi, poiché mi sento coinvolto in una tale dinamica un po’ a imbuto. Da una parte mi sembra che il contesto ritenga opportuna una lucidità costante, dall’altra io stesso, severamente, vorrei impormi sulla stanchezza. 

Una volta ho letto un libro che mi avevano chiesto di recensire, che sosteneva questa tesi: è nello spirito egemonico del capitalismo attaccare il sonno, aggredire lo spazio privato, e quindi pervaderci coi suoi messaggi consumistici per 24/7, stringendoci in un assedio. Ora, che la causa sia o meno il capitalismo (il quale, sia detto per inciso, è diventato molto spesso il facile e pronto bersaglio verso cui sfogarsi), è effettivamente registrabile una certa richiesta di attenzione e una diminuzione dello spazio entro il quale essere liberi di non reagire immediatamente agli stimoli esterni. 

È dunque l’infinita quantità di stimoli esterni e una diffusa (e diffondentesi) incapacità a staccarsene temporaneamente, che mi sembra la cosa più interessante verso la quale orientare il nostro sguardo critico. Non è iper-attività, è più probabilmente la componente malsana di un mondo che con l’iper-connessione ci ha permesso di raggiungere gradi di emancipazione mai sfiorati prima, e che però ha come contropartita la potenziale contraffazione dei nostri animi. 

Ma come al solito, non sono le cose ad essere di per sé tossiche, bensì è il loro utilizzo a trasformarle in virtualmente mortali. 

Allora l’uomo che non sapeva dove andare con il suo carico di medicinali nel gilet, mi è sembrato meno strano. Potrebbe essere stata la paura a muoverlo, oppure una dimenticanza, o forse un distacco dalla realtà nella quale siamo catapultati ogni mattina e dalla quale difficilmente ci stacchiamo

Il caldo, comunque, mi ha perseguitato per tutto il giorno e anche di notte ho sofferto l’afa. Poi è arrivato un nuovo giorno, ancora caldissimo, ma sono piano piano riuscito a farmene una ragione, malgrado il sudore. 

Più o meno, in fondo, tutti noi facciamo sempre così. 



Photo by Sophie Keen on Unsplash
Saverio Mariani

Author Saverio Mariani

Laureato in Filosofia ha svolto ricerca a Macerata, Napoli e Roma, salvo tornare sempre nella sua Umbria dove c'è il silenzio giusto per suonare le sue chitarre. Ha scritto saggi per riviste scientifiche, un libro su Bergson (ETS, Pisa 2018), alcuni racconti usciti su Minima&Moralia e varie altre cose. Sua madre dice che compra troppi libri, per l'Istat è un lettore forte.

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