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Ieri sera ho visto La grande bellezza, l’ultimo film di Paolo Sorrentino.
Avevo letto, nei giorni scorsi, molte recensioni. Una metà positive, ed una metà no. Come al solito.
Non sono affatto un critico cinematografico (che, poi, dovrei capire bene cos’è un critico cinematografico, come cos’è un critico letterario, etc.), ma volevo raccontare le mie sensazioni durante, e dopo la visione dei 140 minuti del film.
La vicenda umana di Jep Gambardella (impersonato da uno strepitoso Toni Servillo, che lascia, come al suo solito, il segno in positivo), scrittore di un unico romanzo, quarant’anni fa, L’apparato umano, che ha avuto un successo strepitoso, e poi eclissatosi dietro il suo talento, è il punto di partenza per la storia.

Jep abita in una casa sensazionale, con un terrazzo chic sul Colosseo, a Roma. Una Roma bellissima (eccola, La grande bellezza), ripresa in modo magistrale da Sorrentino, che ha già dato prova – indiscutibile – di essere un regista eccezionale, basti pensare alla fotografia e alle riprese di The must be the place, o alle stesse riprese di questo suo ultimo lavoro. La Roma (storica) ripresa da Sorrentino è pulita, casta, senza tempo, e senza ritocco (al contrario della Roma ridisegnata verso colori innaturali, da Woody Allen in To Rome with love), forse una dedica alla Roma di Fellini, ma in ciò non ci vedo nulla di male.

Sul terrazzo di Jep si alternano feste a base di cocaina, alcool ed ebrezza pura, a incontri radical chic, con la nana ed eclettica direttrice del giornale dove Jep scrive articoli di cultura, insieme ad amici vari, pronti a parlare di tutto, e di nulla. Nelle chiacchierate notturne si denuncia la mancanza di moralità, e si denuncia l’attaccamento alle cose materiali del mondo da parte degli uomini, che hanno perso ogni tendenza “spirituale”.

Ci sono mille, velati – ma non troppo -, attacchi critici, da parte di Sorrentino, a quella sinistra in cachemire, che ha parole pronte per tutti, ma nessuna auto-consapevolezza di sé.
Le storie, con al centro Jep, si susseguono, nel tranquillo scorrere di vite insipide e senza prospettive. Com’è quella di Jep, appunto. A 26 anni trasferitosi a Roma, ed ora – a 65 – eterna promessa letteraria, senza stabilità alcuna. Se non quella di “non sapere cos’è la mattina”.

Una vita notturna, fatta di evasione e fuga verso realtà immaginarie, che in verità costituiscono le vite dei personaggi del film. Come la parte della ricca Isabella Ferrari, o della spogliarellista cinquantenne Sabrina Ferilli (brava, perché non recita, ma fa se stessa, una “romana de’ Roma”), o quella del cardinale cuoco, che appena può lascia stare discorsi su Dio e sulla Fede, per spiegare alla combriccola come cucinare il coniglio alla genovese. O Romano (Carlo Verdone), amico storico di Jep, pseudo-scrittore di teatro, insicuro di sé e di ciò che scrive.

In mezzo a questo nulla decadente, a questo buio assordante, che nasconde dentro di sé l’ipocrisia di chi ha vinto, sul piano sociale, e che si manifesta con la fuga e l’evasione dalla realtà vera, si accendono alcune luci.
Alcuni fatti, nella vita di Jep, portano lo stesso a prendere consapevolezza del suo essersi gettato in una melma che non permette risalita. Ed un giorno, in verità, quella melma lui la guardava dall’alto. O almeno avrebbe potuto.
Su questa linea, prende corpo un film – a mio avviso – straordinario; che non vuole per niente mettere in risalto la distanza fra La grande bellezza di Roma, e la grande bruttezza di queste vite gettate alle ortiche, e vissute come estenuanti, da chi le ha buttate.
La regia di Sorrentino è, ancora una volta, magistrale. Le musiche (alcune di Lele Marchitelli, e la Terza sinfonia di Gorecki) sono calibrate al punto tale da rendere tutto ancora più bello.

La grande bellezza è un film sull’apparenza, sul fatto che – alla lunga – ciò che è si mostrerà all’evidenza, e ciò che appare verrà distrutto sotto i colpi dell’eterna grande bellezza che è nascosta, sul piano interrato della realtà e della vita.
Non si tratta di riaffermare un realismo di fondo (ora tanto in voga, in campo filosofico), ma si tratta di far capire che in qualsiasi campo, le costruzioni umane hanno una vita limitata e finita. Perché cercano di oscurare la luce eterna di ciò che c’è, al di sotto.
La vita di Jep Gambardella, è l’emblema di ciò. Una vita che ha nascosto a se stessa il suo senso, e lo ha cercato lì dove lo cercavano tutti. Non trovandolo. Jep, però, si accorge di “non poter più perdere tempo, a fare cose che non aveva voglia di fare”, forse ha percepito la luce che da sotto continuava a spingere.

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