Fra meno di una settimana si vota per il referendum costituzionale, per approvare o respingere la riforma concernente, dice il quesito referendario, “le disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della II parte della Costituzione”. Il referendum: la democrazia diretta, la massima espressione dell’idea del potere al popolo.

arton40121Conscio di questo, ho ragionato sulla riforma, leggendo anche il testo della Costituzione modificata e comparata alla versione attuale, ne ho parlato con amici informati e meno informati; e – non me ne vogliate – ho fatto la mia scelta. Oramai purtroppo il voto sarà, per larga parte, contro o pro Governo; per tutti i politicanti schierati per il No inoltre, il voto sarà indicativo per la loro sopravvivenza politica.

Credo tuttavia sia onesto, e necessario, prescindere da questo e recarsi nella cabina elettorale consapevoli di ciò che si sta facendo. Dunque provo a spiegare (che poi in realtà è uno spiegarmi) perché ho deciso di votare Sì.

(Tuttavia, ho un primo sussulto appena penso che una buona fetta degli elettori che avranno il mio stesso peso la sera del 4 dicembre sui risultati elettorali, non sono stati nemmeno sfiorati dall’idea di informarsi in maniera adeguata sulla cosa, ma voteranno con la pancia. E sappiamo tutti dalla pancia cosa esce. Purtroppo o per fortuna questa è la democrazia.)

Premesso che comprendo alcune delle ragioni che spingono molti a votare No, credo ci siano due ordini di ragionamento da fare, uno interno e uno esterno alla riforma, che una volta fatti mi portano inevitabilmente a votare Sì.

Quello interno alla riforma.

Quest’ultima, tra le altre cose, prevede la correzione della riforma del Titolo V approvata nel 2001 e che, nonostante il voto referendario di quindici anni fa l’avesse promossa, ha creato non pochi problemi per quanto riguarda le competenze di Stato e Regioni. Si pensi che, in seguito alla riforma del 2001, si sono venute a creare enormi ambiguità sulle competenze statali o delle autonomie, che hanno prodotto circa 1.500 contenziosi fra Stato e Regioni dei quali si è dovuta occupare la Corte Costituzionale. (Trovate qui un ottimo riassunto e spiegazione di cosa riguarda la riforma del titolo V.) Credo che la riforma, riportando nelle mani dello Stato molte “materie concorrenti”, che con la riforma del 2001 erano miste fra governo centrale e regioni, possa rendere più equilibrata e omogenea la gestione su tutto il paese.

Inoltre si supera, finalmente, il bicameralismo paritario. Detto chiaramente e fuori dai denti: chiunque, davvero chiunque, negli ultimi vent’anni almeno, ha sostenuto che il bicameralismo paritario andava superato. Certo, il Senato che ne esce non è quello che, personalmente, avrei desiderato ma, si sa, ogni atto politico è un compromesso, e penso sia vero che qualcosa sia meglio di niente. Questo non significa accontentarsi, anzi, credo sia lo spirito stesso del riformismo.

Il superamento del bicameralismo paritario (formula con la quale i padri costituenti intendevano proteggere il nuovo ordine costituzionale guadagnato col sangue, da una forte personalità che potesse rovesciarlo) non è necessario per velocizzare la pratica legislativa (ne abbiamo fin troppe di leggi!), ma per rendere il governo eletto più stabile. Che vi piaccia o no, l’idea che in settant’anni di storia si siano succeduti 63 governi, ci mostra in tutta la sua plasticità questo fenomeno italiano dell’instabilità innalzata a modello – concausa per la quale, oltretutto, si è incapaci di progettare a lungo termine interventi di riforma e modernizzazione del paese. Con una sola camera che vota la fiducia, dove – anche se venga approvata la bozza della nuova legge elettorale, cosa che auspico – la maggioranza ha un certo margine, il governo è meno soggetto a veti particolari e ad accordi con forze politiche altre.

Questo appena esposto mi sembra il maggiore e più importante intervento della riforma. Quello con, potenzialmente, più capacità positiva di agire sul futuro del nostro paese.

A chi dice che le leggi possono essere approvate in fretta pure oggi, come è stato fatto con la tanto odiata Legge Fornero, consiglio di leggere questo.

(Piccola digressione: la situazione attuale, nel mondo contemporaneo, è quella che ci mostra una quantità enorme di forze sul campo; perché non avvenga che gli organi politici si svuotino ancora di più, occorre che la politica sia capace di riprendersi la sua centralità. Ne parlava domenica 27 novembre Roberto Esposito su Repubblica, descrivendo come la dialettica fra liberalismo e politica, se mal giocata, possa produrre effetti indesiderati.)

Per quanto riguarda l’elezione dei senatori: non riguarda il voto del referendum, ma è importante che venga accettata – qualora vincesse il Sì – la proposta Fornaro-Chiti. Ma, ripeto, non riguarda il voto e sarà eventualmente una materia da trattare in seguito.

Sarebbe lungo l’elenco di cose più che positive di questa riforma (il Senato che può controllare sull’attività della Camera; la possibilità del Presidente della Repubblica di reinviare alla Camera una legge attuativa di un decreto legge senza far scadere i termini; il ridimensionamento dell’attività dei decreti legge da parte del governo col quale si è spesso superato il potere legislativo delle camere; il referendum propositivo e l’obbligo da parte della Camera di prendere in esame le proposte di iniziativa popolare; ecc.), per chi ne desidera un’esaustiva dimostrazione consiglio questo ottimo articolo di Luciano Violante.

Quello esterno alla riforma.

Votare No significherebbe (oltre a bloccare una riforma che, certamente migliorabile, il paese attende da una trentina d’anni almeno) indebolire il governo, probabilmente aprire una crisi, andare a nuove elezioni o fare un governo tecnico, o di scopo, che scriva e approvi una legge elettorale tendenzialmente pasticciata. Diciamocelo: il solito tran tran della politica italiana, proprio quello che la riforma – dando stabilità – vorrebbe evitare, per quanto possibile.

Inoltre, non credo ci sia nessuna alternativa plausibile che possa realmente prendersi carico di governare il paese e di introdurlo all’interno di un processo di riforme condivise. Il governo mi pare si stia muovendo bene sul piano europeo, nel tentativo – come dicevo prima – di rafforzare la propria influenza politica, contro un sistema che appare distante dalle persone e solamente con funzioni burocratiche.

Sul perché il ragionamento esterno sia importante per votare Sì, lo spiega benissimo Gianluca Briguglia sul suo blog: sottoscrivo.

Piccola digressione conclusiva. A coloro i quali sostengono che questa riforma è come la riforma del 2006, bocciata dal referendum costituzionale e proposta dal centrodestra dico: no, affatto. Leggetela. Quella riforma superava il bicameralismo ma soltanto passando attraverso un’altra legislatura che, in potenza, avrebbe potuto cancellare la riforma; i poteri del premier diventavano davvero troppi (compresa la folle possibilità che il presidente del Consiglio sciogliesse le camere). La riforma sulla quale siamo chiamati a votare non conduce a nessuna deriva autoritaria, per il semplice motivo che le funzioni del Presidente del Consiglio non vengono affatto modificate.
Ma ci sono altre cose che andrebbero sfatate.
Per dire, a titolo d’esempio: la riforma tocca 47 articoli della Carta costituzionale, modificandoli. Essi cambiano, per lo più, perché si corregge la precedente dicitura “la Camera e il Senato” nella nuova formula “la Camera”, giacché il nuovo Senato avrà altri compiti. E così andare sui molti (voluti) errori che il cosiddetto fronte del no ha agitato e brandito.

La riforma non è perfetta, come nulla è perfetto di ciò che viene fatto dall’uomo – soprattutto in politica. Se non è la cecità a muovere le nostre intenzioni potremo ragionare su ciò che costruiamo, prendendo poi – comprensibilmente – per le ragioni del Sì o quelle del No. La mia bilancia, per i motivi sopra esposti, pende verso il Sì.

La vera sconfitta, comunque, è già avvenuta; è quella che porterà milioni di italiani a votare domenica 4 dicembre senza aver svolto nemmeno un decimo delle banali valutazioni che sono riuscito a fare. Potremmo tirare in mezzo le responsabilità dei media, dei social network capaci di alimentare la rabbia o la devozione, dei politici che si urlano addosso frasi fatte, ma molto spesso c’è una totale incapacità da parte nostra di fare chiarezza a noi stessi, di capire. Per questo mi chiedo, amaramente, se non sia in parte errato chiedere agli elettori di approvare o respingere delle leggi così complesse (che poi diventano solo il simbolo per giocarsi, politicamente, qualcos’altro) – o delle questioni decisive come la Brexit, per dirne una – e non sia più giusto che gli elettori votino i propri rappresentanti, i quali facciano il loro dovere per 5 anni e che poi possano essere giudicati o con la rielezione o con la bocciatura.

Ma di questo, magari parliamo un’altra volta.

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